IL LAVORO COME ANTIDOTO ALLA VIOLENZA
di Barbara Rachetti, socia ArcoDonna e giornalista
Secondo i dati del rapporto annuale sul Global Gender Gap recentemente pubblicati dal World Economic Forum, l’Italia è il 118esimo Paese su 144 per la partecipazione femminile alla vita economica, addirittura all’ultimo posto tra i paesi dell’Europa Occidentale per donne occupate. Dopo di noi, solo la Grecia.
La mancanza di lavoro per le donne produce una mancanza di crescita complessiva economica e mina le condizioni per un reale sviluppo democratico, poiché la democrazia implica l’inclusione, la partecipazione attiva e la libertà individuale. In generale, l’insicurezza economica delle donne implica una dipendenza cognitiva, economica, valutativa, relazionale, spaziale, affettiva. Ed è strettamente legata alla violenza degli uomini.
Lo dimostra anche un‘indagine appena condotta da Action Aid, in collaborazione con alcuni centri antiviolenza (CAV), su 552 donne assistite in quattro Paesi europei: Bulgaria, Grecia, Italia e Spagna.
Il risultato è che l’indipendenza economica è un fattore decisivo per scongiurare la violenza.
L’82,5% delle donne che si sono rivolte ai Centri Antiviolenza ha un basso livello di indipendenza economica, contro il 17,5% che è economicamente indipendente.
Il 40,9% delle donne che ha subito violenza lavora, mentre il 59,1% non ha un’occupazione.
Il 73,7% ha figli a carico e solo il 13,3% vive in una casa propria, contro il 14,8% che ne condivide la proprietà con il marito/partner.
Il 53% delle donne ha subito qualche forma di violenza economica: in particolare, il 22,6% dichiara di non avere accesso al reddito familiare, il 19,1% non può usare i suoi soldi liberamente, mentre il 17,6% afferma che le sue spese sono controllate dal partner. Il 16,9% non conosce nemmeno l’entità del reddito familiare, mentre il 10,8% non può lavorare o trovare un impiego.
La crisi ha esasperato l’isolamento femminile. In Italia attualmente lavora il 46,1% delle donne contro il 58,7 del terzo trimestre 2009. Nel 37,2% delle famiglie in cui è presente una donna tra i 25 e i 54 anni, lavora solo l’uomo. La media europea è del 24,9%. All’arrivo del primo figlio il 27% lascia il lavoro. Il livello dell’occupazione femminile tra i 15 e i 64 anni in Italia è di oltre 12 punti inferiore a quello europeo. E anche quando si ritirano a casa, il lavoro delle donne non viene riconosciuto, eppure vale il 5 per cento del PIL.
Per contro, siamo la Nazione con il maggior numero di studentesse universitarie, e che studentesse! Secondo gli ultimi dati Almalaurea e una ricerca dell’università di Trieste, le femmine diplomate con voto da 90 a 100 sono il 18%, contro il 7,5% dei maschi. Il 24% delle femmine svolge lavori saltuari mentre studia, contro l’11% dei maschi. Il 57% termina in regola, contro il 38% dei maschi. Nonostante ciò, continua lo scarso investimento nel
settore lavorativo ed economico da parte dei genitori: per il 24% delle ragazze (quindi quasi una su quattro) i genitori “non si aspettavano per nulla” dalle figlie che continuassero il percorso di studi – contro il 17% dei maschi.
Il problema non è la diversità di genere, ma il significato che diamo alla diversità: è qui che si crea la disuguaglianza e subentra lo stereotipo. Sono le stesse famiglie ad alimentarlo. Sono quelle stesse famiglie che, nella percezione comune sul lavoro, attribuiscono ai maschi competenza e responsabilità, e alle donne emotività e inaffidabilità.
Per questo parlare di pari opportunità oggi ha ancora valore. Perché, nonostante quello che ci sentiamo dire, le donne ancora oggi non possono avere tutto: carriera, amore, figli non sono conciliabili. Nei passi indietro professionali non c’è una scelta, c’è una non scelta. La verità è che viviamo ancora in una società a misura d’uomo e finché non avremo tante, tantissime donne in posizioni rilevanti (nelle aziende e nelle istituzioni) non ci sarà alcun vero cambiamento. Ma il primo passo è ammettere che nessuna donna, nemmeno la più brava, competente e preparata, può ancora avere tutto.
Lavoriamo però per poter avere almeno quello che ci spetta, per colmare cioè quel gender pay gap che l’Onu riconosce come “il più grande furto della storia”: a parità di mansione, in tutto il mondo le donne guadagnano meno degli uomini. In Italia, nel 2019 si tratta del 5,3%, secondo i dati Eurostat.
Passerà ancora molto tempo perché noi donne capiamo come prenderci quello che ci spetta, intrappolate troppo spesso nel compiacimento della gratuità: pensiamo di valere così poco che lavoriamo anche per niente.
Ma tra fare tutto per niente e fare tutto come gli uomini c’è una misura intermedia. Incominciamo col farci restituire quello che ci spetta!