Associazione per la promozione e la valorizzazione delle pari opportunità. Per promuovere, sensibilizzare, valorizzare le donne, in tutte le manifestazioni della vita civile e professionale.

LA NOSTRA SOCIA BARBARA RACHETTI SULLA RIVISTA MCG

Le storie ci cercano, basta andargli incontro

di Barbara Rachetti

“Le parole sono un’acqua che tiene a galla e sostiene, un abbraccio che stringe forte e cancella la paura”

Non so se vi capita: spesso noi ricordiamo solo colori, odori, sensazioni, dettagli. Perché la vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda. E questo ricordo viene dalla pancia. Parliamo, allora, alla pancia delle persone: coinvolgiamole, rendiamole partecipi e condividiamo la loro e la nostra storia, perché tutti noi ne abbiamo una. Questo è il compito più nobile di noi giornalisti: raccogliere queste storie e costruire tanti racconti, che le persone amino leggere per riconoscersi, scoprire altre vite, guardare la realtà con occhi nuovi. Così succede anche a me. Da una storia detonante, una miccia che fa esplodere emozioni e incontri, nasce un progetto, da cui scaturiscono nuove storie, intrecci emozionanti e la voglia di viverne altri per poi raccontarli.

La miccia è un reportage sui centri della Lega del Filo d’Oro, associazione storica che supporta le persone sordocieche e le loro famiglie, 189mila in Italia. Tema delicato, da maneggiare con cura. Mi avvicino in punta di piedi pensando di affacciarmi sulla soglia di un mondo parallelo. Invece scopro che la disabilità è anche il nostro mondo, noi tutti ne siamo coinvolti e responsabili perché lì dentro non ci sono angeli ma pulsano lo stesso sangue, la carne, il pensiero, le paure, il cuore che impastano ogni giorno anche le nostre vite. E che devono essere raccontate senza pregiudizi. Visito alcune sedi con il fotografo Settimio Benedusi, che restituisce un lavoro in bianco e nero ma con tutti i colori della poesia, della dolcezza e della tenerezza, e anche del dolore: bambini che guardano senza vedere, adulti come bambini, mamme alle prese con decisioni troppo grandi e papà con domande senza risposta. E le vite di tutti loro, le racconto con delicatezza e senza ipocrisia in un progetto che riceve un premio giornalistico.

Questo riconoscimento, invece di chiudere un capitolo ne apre un altro perché mi spinge a chiedermi come testimoniare la disabilità, condizione estremamente diffusa e incombente perché riguarda sempre più persone e non solo chi vive sulla sedia a rotelle. Ha a che fare con le malattie croniche e quelle mentali: in Italia il 40 per cento di chi lavora ha un problema di salute cronico e le malattie mentali sono la prima causa di disabilità. Ha a che fare con l’invecchiamento: noi baby boomers vivremo fino a 87 anni e invecchieremo peggio dei nostri genitori 80enni. E ha a che fare con le politiche di welfare della nostra Italia, il secondo Paese al mondo per numero di anziani dopo il Giappone, e tra questi ci sono anche i disabili, che invecchiano pure loro. Quasi cinque milioni di italiani e italiane, secondo l’Istat, hanno gravi deficit motori, sensoriali, intellettivi e nel 2040 se ne conteranno 6,7 milioni. Per fotografare questo scenario, a 50 anni torno a studiare all’università, divento Disability Manager e inizio a confrontarmi con la fragilità.

E siccome le storie ti vengono a cercare, incontro Stefano Pietta (NELLA FOTO …), sulla sedia a rotelle dalla nascita. Lui che si definisce “il capitano della mia anima, il re della mia vita”, e a cui è stato appena riconosciuto il tesserino da giornalista honoris causa, dalla sua camera anima una web radio a cui lavora grazie a una console speciale. Va ai concerti, i cantanti lo ricevono nei backstage, ha il posto d’onore alle partite di calcio: una vita più impegnata e vivace di quella di molti di noi. Insieme raccontiamo la sua vicenda di luci e ombre al liceo classico Berchet di Milano, dove Stefano affronta il tema spinoso della sessualità nella disabilità, a cui in Italia guardiamo in modo pruriginoso e vouyeristico, oppure vivisezionando questa condizione come fenomeno puramente scientifico perché la disabilità, come la malattia o la vecchiaia, modifica un corpo. E un corpo trasformato genera imbarazzo e sensi di colpa nell’avvicinamento e nel contatto. Ma se una persona non cammina, tutto il resto non sparisce. Molti sono convinti che chi è disabile non abbia pulsioni e passioni, che non desideri e non sia desiderato. Non è così. Sesso e disabilità insomma sono ancora tabù, dove il tabù nasconde la paura di non sapere cosa fare per loro e con loro. Per questo bisogna educare alla differenza, abbattere l’ignoranza e promuovere la conoscenza. Perché – come ricorda Stefano – «Io non sono la mia disabilità, non sono la mia carrozzina. Ho una disabilità e sto su una carrozzina». Ora con Stefano siamo in contatto su Facebook, dove col suo sorriso rubacuori colleziona manciate di like e baci.

Ma anch’io divento collezionista di cuoricini femminili. Donne con problemi di salute mi cercano per dare loro voce: endometriosi, fibromialgia, artrite reumatoide, vulvodinia. Seguo tutte queste malattie e pubblico le storie di chi ne è colpita – poco raccontate, non riconosciute e con diritti spesso minimi, a volte nulli – anche perché oggi, in un momento in cui ci scopriamo tutti più fragili, chi lo è sempre finisce per sembrarlo ancora di meno e per precipitare in fondo alla lista dell’emergenza. Invece le parole possono restituire dignità perché definiscono, costruiscono e proteggono l’identità delle persone: è importante cercarle e trovarle per gettare luce su chi, altrimenti, resterebbe inascoltato. E così racconto anche di Barbara Biasia, un’altra storia detonante che mi viene a cercare e diventa un’amicizia: una donna con tumore metastatico, fragilità poco nota perché riguarda ogni anno in Italia circa 14.000 donne, una minima parte rispetto ai 58mila casi all’anno di cancro al seno. Ma quello metastatico resta inguaribile e le donne sviluppano, per questo, depressione e malattie correlate, perdono il lavoro, spesso anche gli affetti. La loro voglia di vivere però è più resiliente della malattia: Barbara ritrova il benessere grazie a dei bastoni speciali per camminare. Li provo e me ne innamoro. Così divento istruttrice di Bungypump (la disciplina si chiama così) e ora porto a camminare le donne con tumore ovarico dell’associazione Acto Lombardia, con cui – Covid permettendo – stiamo sviluppando un progetto di ascolto e incontro in diversi ospedali della Lombardia.

Senza bastoni, invece, mi trovo a correre con le Pink Runners di Milano la tappa inaugurale della Pink Marathon 2020, la gara benefica della Fondazione Umberto Veronesi per raccogliere fondi a favore della ricerca contro il cancro, che quest’anno si svolge a frazioni, ogni gruppo nella propria città (NELLA FOTO IN ALTO DI ??, CON MARTA CASIRAGHI, PINK RUNNER, E LA RICERCATRICE DI FONDAZIONE UMBERTO VERONESI FEDERICA SCALORBI). Tutte vestite di rosa, corriamo sotto la pioggia, ogni donna con il suo vissuto di dolore, terapie più o meno invasive, amori e figli al seguito, sogni mutilati e futuro da ridisegnare. Io sono l’unica risparmiata dal male ma vesto la stessa divisa, un po’ una di loro perché mi sono mischiata alle loro vite raccontandole per la Fondazione. E così, incontro giovani donne costrette alla menopausa dalle cure post-intervento, mamme che il venerdì entrano in ospedale per la chemio e il lunedì tornano al lavoro, donne mature che confidavano nella serenità degli anni migliori. Tante donne a cui dare voce senza ipocrisia e senza slogan perché il tumore non è una battaglia, è una condizione che capita e si affronta. E chi la vive non è un guerriero col coltello tra i denti, ma una persona con tutte le sue fragilità, da guardare in faccia e nel cuore e sostenere. Come fanno la parole: un’acqua che tiene a galla e sostiene, un abbraccio che stringe forte e cancella la paura.